21-02-2006

Il discorso sullo stato dell'Unione non solleva Bush dalle secche

Trascorse tre settimane dal tradizionale discorso che ogni inizio anno il presidente americano rivolge alla nazione, nulla sembra essere cambiato sotto il profilo della sua popolarità.
Le ultime rilevazioni mostrano, infatti, che l’indice di approvazione resta stazionario al 42% della popolazione, vale a dire il livello più basso di qualsiasi altro presidente del
secondo dopoguerra. Soltanto la popolarità di Richard Nixon era piombata a punte inferiori, subito dopo lo scandalo Watergate.

Eppure, riflettendo sui contenuti del suo “speech”, Bush ha affrontato tematiche molto popolari, tralasciando i toni altisonanti e le grandi sorprese che avevano caratterizzato i discorsi alla nazione durante i quattro anni precedenti.
È probabile che usando accenti meno forti, George W. sperasse di riconquistare la fiducia dell’elettorato, stanco soprattutto delle logoranti vicende legate all’Iraq e ai pesanti strascichi della presenza militare USA nel paese mediorientale.
Bush, quindi, ha selezionato con cura il tenore del suo intervento. Dopo aver esordito con parole di cordoglio per la scomparsa di Coretta Scott King, la vedova di Martin Luther King, il capo della Casa Bianca ha proseguito, ispirandosi ai principi etici, ai valori, al rispetto umano e, in campo economico, ai vantaggi del libero mercato.

Nonostante questo tentativo di ricucire lo strappo con l’elettorato, però, il problema di fondo è che ben i due terzi della popolazione americana ritiene che il proprio paese stia andando nella direzione sbagliata; proprio la questione Iraq o, meglio, la permanenza delle truppe USA, viene considerata un grave errore da molti americani. Bush, inoltre, si trova a dover fare i conti con un 2005 deludente sotto diversi aspetti, in primis il fallimento della riforma del sistema sanitario e la pessima gestione delle conseguenze dell’uragano Katrina. Il sistema legislativo è inoltre attualmente intasato a causa di troppe pendenze, tra cui la riforma per l’immigrazione, il disegno di legge per l’assegnazione dei fondi dello stato e molte altre bozze normative che da tempo giacciono, in attesa di essere convertite in legge. Come se non bastasse, secondo alcuni sondaggi, l’elettorato si sta spostando verso il partito democratico che, nell’attuale struttura del Congresso, siede all’opposizione. Ai Repubblicani, invece, si imputano una serie di scandali e diversi episodi di corruzione che ledono l’unità del partito e non aiutano la popolarità del presidente.

Trovandosi praticamente relegato in un angolo, Bush non aveva quindi molte alternative di fronte alla nazione se non quella di evitare toni forti o ridondanti. È quindi tornato ad enfatizzare i valori della democrazia, definendola la giusta alternativa al terrorismo, e a decantare le virtù delle politiche economiche ispirate al liberismo, prendendo come esempio proprio gli Stati Uniti e brillanti risultati conseguiti negli anni rispetto alle altre economie industrializzate. Si è inoltre soffermato sui temi legati all’immigrazione, materia molto delicata negli USA, ribadendo il suo sostegno a una politica più aperta e liberale anche in questo ambito. Per quanto denso di retorica, questo specifico intervento è stato interpretato dai politologi come un’abile manovra per riavvicinare al suo partito quella parte di elettorato formata da immigrati e popolazioni indigene, tradizionalmente più vicina ai Democratici.

Complessivamente, il discorso sullo stato dell’Unione sostenuto da Bush alla fine di gennaio è apparso più un affermazione dello status quo che di radicali riforme. Il presidente non ha
mancato di puntare il dito su questioni spinose, come le pericolose velleità dell’Iran in campo nucleare o altre problematiche maggiormente legate al contesto interno, quali la
riforma fiscale bloccata al Congresso. Quella che invece è apparsa molto fiacca è stata la sua capacità di elargire consigli e indicazioni pratiche su come affrontare e risolvere le varie questioni sul tappeto. In sintesi è stato un discorso decisamente poco pragmatico.

Secondo il settimanale “The Economist”, il recente resoconto sullo stato dell’Unione non potrà essere archiviato come un intervento classico, ma questo non significa che non servirà al suo scopo. Anzitutto è bene premettere che queste allocuzioni non sono così determinanti per il futuro del presidente in carica, come molto politologi sostengono. L’istituto di indagini demoscopiche Gallup rivela che, a partire dall’amministrazione Carter, dei 24 discorsi sullo stato dell’Unione tenuti dai vari presidenti solo dieci sono serviti a migliorare il loro indice di popolarità, mentre i restanti hanno avuto come esito una contrazione di tale percentuale. La loro incidenza sulle sorti del presidente in carica è quindi irrilevante.

Va infine sottolineato che, malgrado questa situazione di stallo, Bush sta già lavorando al piano di battaglia per le elezioni di medio termine che si svolgeranno a metà mandato, programmate per martedì 7 novembre. Egli è anzitutto intenzionato a risolvere i conflitti scoppiati all’interno del proprio partito e a ricompattarne le fila, per presentarsi alle elezioni con una nuova veste. Da un punto di vista tattico, la prossima grande sfida del presidente americano potrebbe essere quella di evitare di assumersi personalmente grossi nuovi impegni, cercando piuttosto di inserirli nella folta lista dei compiti che toccheranno all’intera amministrazione. Archiviato lo scoglio del discorso sullo stato dell’Unione, questa potrebbe rappresentare un’altra soluzione per fare in modo che il corso attuale delle cose non muti improvvisamente segno. Ancora una volta, alla fine, la scelta potrebbe quindi risultare quella dello status quo.

fonte Cornèr Banca SA


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