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06-03-2006

Una politica monetaria sempre più

Il neo presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, non avrà vita facile nei prossimi mesi. La maggioranza degli analisti, infatti, ritiene che i compiti del governatore nello stabilire i futuri orientamenti di politica monetaria saranno resi più difficoltosi dall’avanzare della globalizzazione. In sostanza, si dice, i fattori che fino ad ora hanno concorso in maniera determinante alle scelte della FED, nell’immediato futuro non saranno più sufficienti, poiché ad essi dovranno essere aggiunti gli effetti delle nuove condizioni congiunturali venutesi a creare con il processo di integrazione mondiale.

Adeguare la politica monetaria ad un’economia globale non è un’impresa facile per nessuna nazione, ma lo è ancor meno per gli Stati Uniti se si considera il loro ruolo di guida a livello planetario. La globalizzazione, infatti, aumenta le difficoltà nello stabilire un livello di tassi d’interesse che consenta all’economia di crescere, evitando al contempo rigurgiti inflazionistici; il suo influsso sulla politica monetaria non è dato solo dall’effetto che genera sui prezzi dei prodotti perché, in realtà, le forze di un mercato internazionale così concatenato incidono sulla curva dei prezzi in maniera molto pervasiva. L’influenza dell’integrazione economica sta quindi assumendo contorni sempre più marcati, al punto tale da insediarsi anche in ambiti precedentemente trascurati nella determinazione della strategia monetaria.

Non è un caso, in effetti, che durante la sua prima audizione al Congresso tenuta a metà febbraio, Bernanke abbia ribadito l’importanza della flessibilità nelle decisioni strategiche. Ha asserito con insistenza che le autorità monetarie internazionali devono assumere un atteggiamento di estrema apertura, di fronte alla miriade di condizionamenti creata dall’interconnessione delle economie mondiali. Il governatore della FED è sicuramente consapevole che alcune delle misure finora impiegate nella determinazione della politica monetaria, quali l’irrigidimento del mercato del lavoro o la diminuzione della capacità produttiva tradizionalmente usate per misurare la pressione salariale sulla curva dei prezzi, stanno divenendo sempre meno attendibili. Esemplificando, se a gennaio il tasso di disoccupazione era del 4,7% e l’utilizzo degli impianti produttivi dell’81%, in un contesto di economia globale è più difficile interpretarne l’incidenza sull’Inflazione, poiché non si terrebbe conto dei numerosi altri fattori che concorrono all’andamento dei prezzi.

La ricerca di una posizione neutrale dei tassi d’interesse, vale a dire che non stimolino troppo o non soffochino la crescita, è resa ancora più gravosa dalla parallela apertura del mercato dei capitali. Secondo alcuni economisti, sottolinea in un’analisi il settimanale Business Week, la mancanza di opportunità di investimento al di fuori degli Stati Uniti, dovrebbe far sì che il livello neutrale dei tassi sia ancora più basso di quello attualmente perseguito dalla FED. Un discorso, però, faticosamente accettabile per la banca centrale americana, in quanto starebbe a significare che la politica di restringimento del credito attuata nell’ultimo anno dovrebbe essere giunta al termine. Ma, in realtà, è noto che finora la FED non ha manifestato alcuna intenzione di voler modificare questo orientamento, poiché ritiene che le pressioni inflazionistiche siano tuttora troppo elevate.

La portata della globalizzazione risulta particolarmente evidente leggendo i dati USA sulla Bilancia commerciale di dicembre. Il volume annuo dell’interscambio USA, dato dalla somma algebrica delle esportazioni e delle importazioni, ha totalizzato 3'300 miliardi di dollari per l’intero 2005. Tale volume è praticamente raddoppiato in appena 10 anni e non solo: con l’esordio del 2006, la crescita dell’interscambio si è addirittura impennata, sia sul fronte dell’export che dell’import, per cui si ritiene che anche l’anno in corso mostrerà un’ulteriore accelerazione. D’altro canto, la robustezza della dinamica espansionistica cinese e delle altre nazioni asiatiche, come pure il miglioramento del quadro congiunturale in Giappone, rendono vieppiù plausibile l’eventualità di un rafforzamento dell’interscambio commerciale USA.

Un sintomo preoccupante della globalizzazione, a tal riguardo, è dato dal persistente squilibrio a livello mondiale, confermato proprio dall’allargamento del deficit della Bilancia commerciale USA: l’import avanza più dell’export. Questo drammatico ampliamento illustra ancora meglio quanto le economie stiano diventando interdipendenti, al punto tale da incidere sul tenore di vita delle singole nazioni. Ad esempio, la Cina conta sui mercati esteri, specialmente quello americano, per raccogliere i fondi necessari a sviluppare la sua economia. Le importazioni a basso prezzo alimentano il potere d’acquisto dei consumatori USA e le economie emergenti dell’Asia ne beneficiano, dato che la Cina affida a queste ultime la produzione di alcuni materiali, che poi rivende sulla piazza internazionale. Nel frattempo, però, il disavanzo commerciale USA seguita ad allargarsi.

Il risultato finale è che la FED vede diminuire il controllo sull’andamento dei prezzi. Inoltre all’orizzonte si profilano altri due importanti effetti della globalizzazione che Bernanke non potrà ignorare. Da un lato, la crescente minaccia del protezionismo; sembra, infatti, che il Congresso americano voglia introdurre un’imposta sulle importazioni cinesi, il che ne provocherebbe un rincaro. L’altro pericolo è l’eventualità di una nuova flessione del dollaro, dovuta ad un incremento del risparmio internazionale. Ciò farebbe affluire meno investimenti e meno denaro nelle casse statunitensi, sminuendo la forza del dollaro, con conseguenze spiacevoli sull’Inflazione interna.

a cura di Cornèr Banca SA


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